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CANTO VI - Purgatorio

Dante si trova nel purgatorio, più precisamente nel secondo balzo dell'antipurgatorio. Qui, i negligenti morti di morte violenta che si pentirono in fin di vita rimangono nell'antipurgatorio tanto tempo quanto vissero. 

L'inizio del canto è in linea con la sua conclusione, in quanto la rassegna dei morti che assillano Dante perché li ricordi ai congiunti ci porta nel vivo delle lotte politiche che dilaniavano i Comuni dell'Italia del tempo: i peccatori sono tutti italiani protagonisti delle lotte tra Guelfi e Ghibellini o vittime di vendette ed odi familiari.

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Dante espone il suo dubbio a Virgilio, in quanto l'insistenza delle anime che si è lasciato alle spalle sembra contraddire con quanto detto dal poeta latino, il quale spiega che i suffragi dei vivi per i penitenti non annullano l'espiazione delle loro colpe, ma fanno soltanto in modo che questa avvenga più rapidamente. Si avverte qui la polemica di Dante contro la Chiesa corrotta che lucrava sui suffragi sfruttando il dolore dei congiunti per i loro defunti in Purgatorio.

 

Incontro con Sordello da Goito (58-75)

Segue poi l'incontro con Sordello da Goito, mostrato da Dante in tutto il suo aspetto regale e dignitoso mentre osserva in silenzio e con fare altezzoso i due poeti che si avvicinano. E' l'affetto di Sordello verso un suo concittadino (il mantovano Virgilio) di cui non sa ancora il nome a far scattare la violenta invettiva di Dante contro l'Italia.

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Invettiva contro l'Italia (76-126)

Essa parte dal fatto che nell'Italia del suo tempo i cittadini sono in lotta l'uno contro l'altro e addirittura entro la stessa città. Dante riconduce la causa principale di tali lotte all'assenza di un potere centrale, che nella sua visione universalistica doveva essere garantito dall'Impero. E' l'imperatore che dovrebbe regnare a Roma e assicurare pace e giustizia agli Italiani, invece il paese è ridotto a una bestia selvaggia che nessuno cavalca né governa. 

L'immagine del paese come un cavallo che dev'essere domato è la stessa usata nella Monarchia e nel Convivio, dove si dice che il potere temporale ha soprattutto il compito di assicurare il rispetto delle leggi: la polemica è rivolta contro i Comuni italiani ribelli, che come Firenze non si sottomettono all'autorità imperiale, ma anche contro il sovrano stesso che rinuncia a esercitare i suoi diritti, come Alberto I d'Asburgo che lascia la sella vòta e preferisce occuparsi delle cose tedesche, seguendo il cattivo esempio del padre Rodolfo I. Dante augura a lui e alla sua casata un duro castigo divino, in modo da indurre il successore Arrigo VII a comportarsi diversamente. 

Nella visione anacronistica di Dante l'imperatore detiene un potere che deriva da quello dell'Impero romano di Cesare e Augusto, quindi il suo compito è quello di ristabilire la sua autorità su tutta Italia stroncando con la forza ogni resistenza, specie quella dei Comuni guelfi alleati col Papa.

 

Invettiva contro Firenze (126-151)

L'ultima parte dell'invettiva si rivolge a Firenze, che come Dante afferma con amara ironia non è toccata da questa sua apostrofe, essendo i suoi cittadini impegnati ad assicurarle pace e prosperità. I fiorentini si riempiono la bocca della parola «giustizia», mentre Dante stesso è un esempio degli abusi compiuti dai Neri contro i loro nemici. L'ultima immagine è molto efficace, in quanto riassume la triste condizione di tante città italiane governante da tiranni e in cui anche i cittadini di più umile condizione diventano capi-fazione e sono pronti a commettere ogni sorta di abuso.

Del resto il poema nel suo complesso è un duro atto di accusa contro il disordine politico e morale dell'Italia del Trecento, che trovava la sua radice prima nella cupidigia, nonché nelle lotte tra città che "insanguinavano il giardin de lo 'mperio" unitamente alla corruzione ecclesiastica che sovvertiva ogni giustizia calcando i buoni e sollevando i pravi.

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TESTO

Ma vedi là un’anima che, posta 
sola soletta, inverso noi riguarda: 
quella ne ‘nsegnerà la via più tosta».                               60

Venimmo a lei: o anima lombarda, 
come ti stavi altera e disdegnosa 
e nel mover de li occhi onesta e tarda!                            63

Ella non ci dicea alcuna cosa, 
ma lasciavane gir, solo sguardando 
a guisa di leon quando si posa.                                       66

Pur Virgilio si trasse a lei, pregando 
che ne mostrasse la miglior salita; 
e quella non rispuose al suo dimando,                           69

ma di nostro paese e de la vita 
ci ‘nchiese; e ‘l dolce duca incominciava 
«Mantua...», e l’ombra, tutta in sé romita,                       72

surse ver’ lui del loco ove pria stava, 
dicendo: «O Mantoano, io son Sordello 
de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava.                     75

Ahi serva Italia, di dolore ostello, 
nave sanza nocchiere in gran tempesta, 
non donna di province, ma bordello!                              78

Quell’anima gentil fu così presta, 
sol per lo dolce suon de la sua terra, 
di fare al cittadin suo quivi festa;                                     81

e ora in te non stanno sanza guerra 
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode 
di quei ch’un muro e una fossa serra.                             84

Cerca, misera, intorno da le prode 
le tue marine, e poi ti guarda in seno, 
s’alcuna parte in te di pace gode.                                     87

Che val perché ti racconciasse il freno 
Iustiniano, se la sella è vota? 
Sanz’esso fora la vergogna meno.                                    90

Ahi gente che dovresti esser devota, 
e lasciar seder Cesare in la sella, 
se bene intendi ciò che Dio ti nota,                                  93

guarda come esta fiera è fatta fella 
per non esser corretta da li sproni, 
poi che ponesti mano a la predella.                                96

O Alberto tedesco ch’abbandoni 
costei ch’è fatta indomita e selvaggia, 
e dovresti inforcar li suoi arcioni,                                     99

giusto giudicio da le stelle caggia 
sovra ‘l tuo sangue, e sia novo e aperto, 
tal che ‘l tuo successor temenza n’aggia!                       102

Ch’avete tu e ‘l tuo padre sofferto, 
per cupidigia di costà distretti, 
che ‘l giardin de lo ‘mperio sia diserto.                          105

Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, 
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: 
color già tristi, e questi con sospetti!                             108

Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura 
d’i tuoi gentili, e cura lor magagne; 
e vedrai Santafior com’è oscura!                                    111

Vieni a veder la tua Roma che piagne 
vedova e sola, e dì e notte chiama: 
«Cesare mio, perché non m’accompagne?».                 114

Vieni a veder la gente quanto s’ama! 
e se nulla di noi pietà ti move, 
a vergognar ti vien de la tua fama.                                117

 


E se licito m’è, o sommo Giove 
che fosti in terra per noi crucifisso, 
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?                             120

O è preparazion che ne l’abisso 
del tuo consiglio fai per alcun bene 
in tutto de l’accorger nostro scisso?                               123

Ché le città d’Italia tutte piene 
son di tiranni, e un Marcel diventa 
ogne villan che parteggiando viene.                              126

Fiorenza mia, ben puoi esser contenta 
di questa digression che non ti tocca, 
mercé del popol tuo che si argomenta.                         129

Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca 
per non venir sanza consiglio a l’arco; 
ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca.                  132

Molti rifiutan lo comune incarco; 
ma il popol tuo solicito risponde 
sanza chiamare, e grida: «I’ mi sobbarco!».                  135

Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde: 
tu ricca, tu con pace, e tu con senno! 
S’io dico ‘l ver, l’effetto nol nasconde.                            138


Atene e Lacedemona, che fenno 
l’antiche leggi e furon sì civili, 
fecero al viver bene un picciol cenno                            141

verso di te, che fai tanto sottili 
provedimenti, ch’a mezzo novembre 
non giugne quel che tu d’ottobre fili.                             144

Quante volte, del tempo che rimembre, 
legge, moneta, officio e costume 
hai tu mutato e rinovate membre!                                147   


E se ben ti ricordi e vedi lume, 
vedrai te somigliante a quella inferma 
che non può trovar posa in su le piume, 

ma con dar volta suo dolore scherma.                         151

PARAFRASI

Ma vedi laggiù un'anima, che se ne sta tutta sola e che guarda verso di noi: quella ci mostrerà la via più spedita».

La raggiungemmo: o anima lombarda, come te ne stavi altera e disdegnosa, e piena di dignità nel muovere lentamente gli occhi!

Ella non ci diceva nulla, ma ci lasciava avvicinare, limitandosi a guardare come fa il leone quando sta in attesa.

 


Tuttavia Virgilio si avvicinò a lei, pregando che ci mostrasse il punto migliore per salire; e quella non rispose alla domanda, ma ci chiese del paese da dove venivamo e della nostra vita; e il dolce maestro iniziava a dire «Mantova...» e quell'ombra, che se ne stava tutta solitaria, si alzò dal luogo dove stava, dicendo: «O Mantovano, io sono Sordello, della tua terra!»; e si abbracciavano a vicenda.

 



Ahimè, Italia schiava, sede del dolore, nave senza timoniere in una gran tempesta, non più signora delle province ma bordello!


Quell'anima nobile fu così sollecita a fare festa al suo concittadino, solo per il dolce suono della sua terra, e adesso i tuoi abitanti in vita non smettono di farsi la guerra, e anche quelli che abitano la stessa città si rodono l'un l'altro.


Cerca, o infelice, intorno alle tue coste e poi guarda nell'interno, se alcuna parte di te si trova in pace.

A che è servito che Giustiniano ti aggiustasse il freno (emanasse le leggi), se la sella è vuota (nessuno le fa rispettare)? Senza di esso (senza le leggi) la vergogna sarebbe minore.

 


Oh gente (di Chiesa), che dovresti essere devota e lasciare che Cesare (l'imperatore) sieda sulla sella, se capisci bene la parola di Dio, guarda come è diventata ribelle questa bestia per non essere tenuta a bada dagli sproni, dal momento che la conduci a mano per le briglie.

O Alberto d'Asburgo, che abbandoni questa bestia divenuta indomabile e selvaggia, mentre dovresti inforcare i suoi arcioni (governare l'Italia), possa cadere dal cielo contro di te e la tua famiglia un giusto castigo, e sia straordinario ed evidente, così che il tuo successore (Arrigo VII) ne abbia timore!

 


Infatti tu e tuo padre (Rodolfo I) avete lasciato che il giardino dell'Impero (l'Italia) sia abbandonato, rimanendo in Germania per cupidigia.

Vieni (o Alberto) a vedere i Montecchi e i Cappelletti, i Monaldi e i Filippeschi, uomo negligente, i primi già in rovina e gli altri sul punto di cadervi!

Vieni, o crudele, e vedi le oppressioni compiute (o subìte) dai tuoi feudatari, e cura le loro colpe (o danni); e vedrai come è oscura Santa Fiora!

Vieni a vedere la tua città di Roma che piange, vedova e abbandonata, e giorno e notte invoca: «Cesare mio, perché non hai qui la tua sede?»

Vieni a vedere quanto si amano gli Italiani! e se non hai alcuna pietà di noi, vieni almeno a vergognarti della tua reputazione.


E se mi è consentito, o altissimo Giove (Cristo), che fosti crocifissoper noi in Terra, i tuoi occhi giusti sono forse rivolti altrove?

Oppure nell'abisso della tua saggezza stai preparando un bene (per l'Italia) di cui non possiamo renderci conto?

Infatti tutte le città italiane sono piene di tiranni, e ogni contadino che si mette a capo di una fazione politica diventa un Marcello.

Firenze mia, puoi davvero esser contenta del fatto che questa digressione non ti tocca, grazie al tuo popolo che si ingegna.

Molti hanno la giustizia in cuore, ma questa si esprime tardi con le parole per non rischiare di non essere ponderata; ma il tuo popolo se ne riempie sempre la bocca.

Molti rifiutano le cariche pubbliche, ma il tuo popolo risponde sollecito senza essere chiamato, e grida: «Me ne incarico io!»

Ora rallegrati, visto che ne hai motivo: tu sei ricca, sei in pace, sei assennata! Se dico la verità, i fatti non lo nascondono.

Atene e Sparta, che scrissero le antiche leggi e furono così civili, diedero un piccolo contributo alla giustizia in confronto a te, che emani provvedimenti tanto sottili (elaborati, ma anche fragili) che quelli emessi a ottobre non arrivano a metà novembre.


Quante volte, a memoria d'uomo, hai tu mutato leggi, moneta e costumi, e rinnovato la popolazione (grazie agli esili)!


E se tu ti ricordi bene e vedi chiaramente, riconoscerai di esser simile a quell'ammalata che non può trovare riposo nel letto, ma rigirandosi di continuo cerca di alleviare il dolore.

Sordello da Goito
Invettiva contro l'Italia
Invettiva contro Firenze
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