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CANTO VI - Paradiso

Dante si trova nel Cielo di Mercurio (2° cielo) dove sono presenti i beati, spiriti che operano il bene per ottenere la gloria terrena. 

Il canto è interamente occupato dal discorso tra Dante e l'Imperatore Giustiniano, convertitosi da eretico alla vera fede.

Egli percorre i momenti salienti della storia dell'impero, di cui l'aquila è il simbolo, da Enea al periodo della Monarchia, a quello della Repubblica, alle guerre civili con la vittoria di Cesare su Pompeo, all'instaurazione dell'ordine sotto Augusto, alla restaurazione di Carlo Magno, fino alla decadenza per colpa dei Guelfi e dei Ghibellini. 

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Giustiniano narra la sua vita (1-27)

Giustiniano risponde alla prima domanda di Dante, spiegando che dopo che Costantino aveva portato l'aquila imperiale (la capitale dell'Impero) a Costantinopoli erano passati più di duecento anni, durante i quali l'uccello sacro era passato di mano in mano giungendo infine nelle sue. Egli si presenta dunque come imperatore romano e dice di chiamarsi Giustiniano, colui che su ispirazione dello Spirito Santo riformò la legislazione romana. Prima di dedicarsi a tale opera egli aveva aderito all'eresia monofisita, credendo che in Cristo vi fosse solo la natura divina, ma successivamente era stato ricondotto alla vera fede e a quella verità che, adesso, egli legge nella mente di Dio.

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Ragioni della digressione sull'Impero (28-36)

Fin qui Giustiniano avrebbe risposto alla prima domanda di Dante, ma la sua risposta lo obbliga a far seguire un'aggiunta, affinché il poeta si renda conto quanto sbagliano coloro che si oppongono al simbolo sacro dell'aquila (i Guelfi) e coloro che se ne appropriano per i loro fini (i Ghibellini). Il simbolo imperiale è degno del massimo rispetto.

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Invettiva contro Guelfi e Ghibellini (97-111)

Dalla digressione nasce poi l'aspra invettiva contro Guelfi e Ghibellini, che per motivi diversi oltraggiano il sacrosanto segno e sono da biasimare in quanto causa dei mali politici dell'Europa di inizio Trecento. Giustiniano invita Dante a giudicare l'operato di Guelfi e Ghibellini che è causa dei mali del mondo: i primi si oppongono al simbolo imperiale dell'aquila appoggiandosi ai gigli d'oro della casa di Francia, i secondi se ne appropriano per i loro fini politici, per cui è arduo stabilire chi dei due sbagli di più. I Ghibellini dovrebbero fare i loro maneggi sotto un altro simbolo, poiché essi lo separano dalla giustizia. L'attacco è soprattutto contro Carlo II d'Angiò, più volte biasimato da Dante nel poema e contro cui Giustiniano rivolge un duro richiamo affinché non si illuda che la monarchia francese possa sostituirsi all'autorità dell'Impero.

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TESTO

«Poscia che Costantin l’aquila volse 
contr’al corso del ciel, ch’ella seguio 
dietro a l’antico che Lavina tolse,                                       3

cento e cent’anni e più l’uccel di Dio 
ne lo stremo d’Europa si ritenne, 
vicino a’ monti de’ quai prima uscìo;                                 6

e sotto l’ombra de le sacre penne 
governò ‘l mondo lì di mano in mano, 
e, sì cangiando, in su la mia pervenne.                              9

Cesare fui e son Iustiniano, 
che, per voler del primo amor ch’i’ sento, 
d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano.                          12

E prima ch’io a l’ovra fossi attento, 
una natura in Cristo esser, non piùe, 
credea, e di tal fede era contento;                                   15

ma ‘l benedetto Agapito, che fue 
sommo pastore, a la fede sincera 
mi dirizzò con le parole sue.                                            18

Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era, 
vegg’io or chiaro sì, come tu vedi 
ogni contradizione e falsa e vera.                                    21

Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, 
a Dio per grazia piacque di spirarmi 
l’alto lavoro, e tutto ‘n lui mi diedi;                                   24

e al mio Belisar commendai l’armi, 
cui la destra del ciel fu sì congiunta, 
che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.                                  27

Or qui a la question prima s’appunta 
la mia risposta; ma sua condizione 
mi stringe a seguitare alcuna giunta,                              30

perché tu veggi con quanta ragione 
si move contr’al sacrosanto segno 
e chi ‘l s’appropria e chi a lui s’oppone.                           33

Vedi quanta virtù l’ha fatto degno 
di reverenza; e cominciò da l’ora 
che Pallante morì per darli regno.                                   36

Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora 
per trecento anni e oltre, infino al fine 
che i tre a’ tre pugnar per lui ancora.                              39

E sai ch’el fé dal mal de le Sabine 
al dolor di Lucrezia in sette regi, 
vincendo intorno le genti vicine.                                      42

Sai quel ch’el fé portato da li egregi 
Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro, 
incontro a li altri principi e collegi;                                  45

 


onde Torquato e Quinzio, che dal cirro 
negletto fu nomato, i Deci e ‘ Fabi 
ebber la fama che volontier mirro.                                  48

Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi 
che di retro ad Annibale passaro 
l’alpestre rocce, Po, di che tu labi.                                    51

Sott’esso giovanetti triunfaro 
Scipione e Pompeo; e a quel colle 
sotto ’l qual tu nascesti parve amaro.                             54

Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle 
redur lo mondo a suo modo sereno, 
Cesare per voler di Roma il tolle.                                     57

E quel che fé da Varo infino a Reno, 
Isara vide ed Era e vide Senna 
e ogne valle onde Rodano è pieno.                                  60
 
Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna 
e saltò Rubicon, fu di tal volo, 
che nol seguiteria lingua né penna.                                 63

Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo, 
poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse 
sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo.                                  66

Antandro e Simeonta, onde si mosse, 
rivide e là dov’Ettore si cuba; 
e mal per Tolomeo poscia si scosse.                                69

Da indi scese folgorando a Iuba; 
onde si volse nel vostro occidente, 
ove sentia la pompeana tuba.                                         72

Di quel che fé col baiulo seguente, 
Bruto con Cassio ne l’inferno latra, 
e Modena e Perugia fu dolente.                                       75

Piangene ancor la trista Cleopatra, 
che, fuggendoli innanzi, dal colubro 
la morte prese subitana e atra.                                        78

Con costui corse infino al lito rubro; 
con costui puose il mondo in tanta pace, 
che fu serrato a Giano il suo delubro.                             81

Ma ciò che ‘l segno che parlar mi face 
fatto avea prima e poi era fatturo 
per lo regno mortal ch’a lui soggiace,                              84

diventa in apparenza poco e scuro, 
se in mano al terzo Cesare si mira 
con occhio chiaro e con affetto puro;                              87

ché la viva giustizia che mi spira, 
li concedette, in mano a quel ch’i’ dico, 
gloria di far vendetta a la sua ira.                                    90

Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco: 
poscia con Tito a far vendetta corse 
de la vendetta del peccato antico.                                   93

E quando il dente longobardo morse 
la Santa Chiesa, sotto le sue ali 
Carlo Magno, vincendo, la soccorse.                                96
 
Omai puoi giudicar di quei cotali 
ch’io accusai di sopra e di lor falli, 
che son cagion di tutti vostri mali.                                   99

L’uno al pubblico segno i gigli gialli 
oppone, e l’altro appropria quello a parte, 
sì ch’è forte a veder chi più si falli.                                 102

Faccian li Ghibellin, faccian lor arte 
sott’altro segno; ché mal segue quello 
sempre chi la giustizia e lui diparte;                              105

e non l’abbatta esto Carlo novello 
coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli 
ch’a più alto leon trasser lo vello.                                   108

Molte fiate già pianser li figli 
per la colpa del padre, e non si creda 
che Dio trasmuti l’arme per suoi gigli!                           111

Questa picciola stella si correda 
di buoni spirti che son stati attivi 
perché onore e fama li succeda:                                    114

e quando li disiri poggian quivi, 
sì disviando, pur convien che i raggi 
del vero amore in sù poggin men vivi.                           117

Ma nel commensurar d’i nostri gaggi 
col merto è parte di nostra letizia, 
perché non li vedem minor né maggi.                           120

Quindi addolcisce la viva giustizia 
in noi l’affetto sì, che non si puote 
torcer già mai ad alcuna nequizia.                                123

Diverse voci fanno dolci note; 
così diversi scanni in nostra vita 
rendon dolce armonia tra queste rote.                         126

E dentro a la presente margarita 
luce la luce di Romeo, di cui 
fu l’ovra grande e bella mal gradita.                              129

Ma i Provenzai che fecer contra lui 
non hanno riso; e però mal cammina 
qual si fa danno del ben fare altrui.                              
132
 


Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina, 
Ramondo Beringhiere, e ciò li fece 
Romeo, persona umìle e peregrina.                               135

E poi il mosser le parole biece 
a dimandar ragione a questo giusto, 
che li assegnò sette e cinque per diece,                         138

indi partissi povero e vetusto; 
e se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe 
mendicando sua vita a frusto a frusto, 

assai lo loda, e più lo loderebbe».                                 142

PARAFRASI

«Dopo che Costantino portò l'aquila imperiale contro il corso del cielo (da Occidente a Oriente), che essa seguì dietro a Enea che prese in sposa Lavinia, l'uccello divino rimase più di duecento anni nell'estremità dell'Europa, vicino ai monti della Troade dai quali iniziò il suo volo;



e lì governò il mondo all'ombra delle penne sacre, passando di mano in mano, fino a giungere nelle mie.

Fui imperatore romano e mi chiamo Giustiniano: sono colui che, ispirato dallo Spirito Santo, eliminai dalle leggi ciò che era superfluo e ciò che era inutile.

E prima che mi dedicassi a quest'opera, credevo che in Cristo ci fosse la sola natura divina, ed ero contento di questa fede;

ma il benedetto Agapito, che fu sommo pontefice, mi indirizzò alla vera fede con le sue parole.


Io gli credetti; e ora vedo ciò che era nella sua fede così chiaramente, come tu vedi che in un giudizio contraddittorio c'è una frase vera e una falsa.

Non appena rientrai in seno alla Chiesa, Dio volle per sua grazia ispirarmi l'alta opera (il Corpus iuris civilis) e io mi dedicai anima e corpo ad esso;

e affidai le armi al mio generale Belisario, che fu assistito dal cielo a tal punto che ciò fu segno che io dovessi fermarmi.

Ora qui termina la mia prima risposta; ma ciò che ho detto mi induce a far seguire una aggiunta, affinché tu veda quanto ingiustamente agiscano contro il sacrosanto simbolo dell'aquila sia coloro che se ne appropriano (i Ghibellini), sia coloro che gli si oppongono (i Guelfi).


Vedi quanta virtù ha reso il segno degno di riverenza; e ciò iniziò dal giorno in cui Pallante morì per assicurargli un regno.

Tu sai che esso dimorò più di trecento anni ad Alba Longa, fino al momento in cui Orazi e Curiazi lottarono ancora per lui.

E sai cosa fece dal ratto delle Sabine fino all'oltraggio a Lucrezia, all'epoca dei sette re di Roma, vincendo i popoli circonvicini.

Sai che cosa fece, portato dai nobili Romani contro Brenno e Pirro, e contro altre repubbliche e monarchi dell'Italia;

per cui Torquato e Quinzio Cincinnato, che fu detto così per la chioma trascurata, nonché Deci e Fabi ebbero la fama che io volentieri onoro.

Esso abbatté l'orgoglio dei Cartaginesi che al seguito di Annibale passarono le Alpi, dalle quali tu, o fiume Po, discendi.

Sotto di esso trionfarono, da giovani, Scipione e Pompeo; e parve amaro a quel colle (Fiesole) sotto il quale tu sei nato.

Poi, quando fu vicino il tempo in cui il Cielo volle far diventare tutto il mondo sereno a sua immagine (per la nascita di Cristo), Cesare assunse il segno dell'aquila per volere di Roma.

E ciò che esso (con Cesare) fece in dal fiume Varo fino al Reno, lo videro l'Isère, la Loira, la Senna e ogni valle di cui è pieno il Rodano.

Quello che fece dopo essere uscito da Ravenna ed aver passato il Rubicone, fu un volo così veloce che né la lingua né la penna potrebbero descriverlo.

Rivolse le truppe contro la Spagna e poi verso Durazzo, e colpì Farsàlo a tal punto che il dolore arrivò sino al caldo Nilo.

L'aquila rivide il porto di Antandro e il fiume Simoenta da cui si mosse, e il sepolcro di Ettore; e poi ripartì per l'Egitto, con nefaste conseguenze per Tolomeo.

Da lì scese come una folgore contro Giuba, re di Mauritania, e poi si portò nell'Occidente del vostro mondo, dove sentiva la tromba dei Pompeiani.

Di quello che esso fece col successore di Cesare (Ottaviano), Bruto e Cassio ancora latrano nell'Inferno e Modena e Perugia ne furono dolenti.

Ne piange ancora la triste Cleopatra, che, fuggendogli davanti, si diede la morte improvvisa e atroce col serpente.

Con Ottaviano l'aquila corse fino al Mar Rosso; con lui ridusse il mondo in pace, al punto che fu chiuso il tempio di Giano.

 


Ma ciò che il segno di cui parlo aveva fatto in precedenza e avrebbe fatto dopo per il regno mortale che gli è sottomesso, diventa poca cosa in apparenza se lo si paragona a ciò che fece col terzo imperatore (Tiberio), se si guarda con chiarezza e sincerità;


infatti la giustizia divina che mi ispira gli concesse, in mano a Tiberio, la gloria di punire il peccato originale (con la crocifissione di Cristo).

Ora prendi ammirazione per ciò che aggiungo: in seguito con Tito corse a vendicare la vendetta dell'antico peccato (con la distruzione di Gerusalemme).

E quando la violenza dei Longobardi si rivolse contro la SantaChiesa, Carlo Magno la soccorse sotto le ali dell'aquila, sconfiggendo quel popolo.

Ormai puoi giudicare la condotta di quelli che ho accusato prima e le loro colpe, che sono causa di tutti i vostri mali.

Gli uni (i Guelfi) oppongono al simbolo imperiale i gigli gialli della casa di Francia, e gli altri (i Ghibellini) se ne appropriano per la loro parte politica, così che è arduo stabilire chi sbagli di più.
I Ghibellini facciano la loro politica sotto un altro simbolo, giacché chi lo separa sempre dalla giustizia ne fa un cattivo uso;


e non creda di abbatterlo coi suoi Guelfi Carlo II d'Angiò, ma abbia timore dei suoi artigli che scuoiarono leoni più feroci di lui.

Molte volte i figli hanno già pagato per le colpe dei padri, e quindi non creda Carlo che Dio cambi il proprio simbolo con i suoi gigli!

Questo piccolo pianeta (Mercurio) accoglie i buoni spiriti che sono stati attivi nella ricerca dell'onore e della fama:

e quando i desideri sono rivolti a questo, così deviando dal loro fine, è inevitabile che l'amore sia meno rivolto verso Dio.

Tuttavia, se paragoniamo i nostri premi col nostro merito, ciò ci induce letizia, poiché non li vediamo né minori né maggiori.

In tal modo la giustizia divina addolcisce il nostro sentimento, così che esso non può mai essere rivolto a un pensiero malvagio.

Diverse voci producono dolci melodie; così i diversi gradi della nostra beatitudine rendono una dolce armonia in questi Cieli.

E dentro questa stella risplende la luce di Romeo di Villanova, la cui opera bella e grande fu poco apprezzata.

Ma i Provenzali, che agirono contro di lui, non hanno riso (furono puniti) e dunque percorre una cattiva strada chi è invidioso e considera un proprio danno le buone azioni degli altri.

Raimondo Berengario ebbe quattro figlie, ognuna sposa di re, e ciò fu il risultato dell'opera di Romeo, persona umile e straniera.


E poi le parole invidiose dei cortigiani lo indussero a chiedere conto dell'operato di quel giusto, che aveva accresciuto le rendite statali, per cui Romeo se ne andò povero e vecchio;

e se il mondo sapesse con quanta dignità si ridusse a mendicare il pane, lo loderebbe ancor più di quanto già non faccia».

Giustiniano
Impero
Guelfi e Ghibellini
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